MADE IN SOUTHERN ITALY - N° 1 | 2007

ARTE DI FONDERIA NEL NORD ITALIA

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Il volto ottocentesco di  Genova: la fonderia Balleydier Frères

Dei fratelli Joseph e J. Marie Balleydier di Nancy si ha per la prima volta notizia nel 1824 a proposito di un loro stabilimento, costituito da un forno reale e da due fuochi di affineria, situato a Tamiè, (Francia, Ducato di Savoia). La carenza di combustibile, causa dell’abbandono definitivo dell’impresa nel 1830, li pone di fronte a una scelta decisiva: impiantare un nuovo opificio ad Annecy o tentare il trasferimento in una regione dove sarebbe stato più agevole il rifornimento di carbon fossile. La scelta ricade su quest’ultima opzione dando inizio a quell’avventura genovese che, in seguito ad un iter decisamente lungo e travagliato, porterà a creare quella che sarà ricordata come la più antica fonderia ligure di seconda fusione, con metodi di produzione innovatavi.

A Sampierdarena, luogo scelto per l’insediamento, essi trasferiscono capitali e forza lavoro tra cui un gran numero di lavoratori savoiardi, comprese parecchie donne esperte nell’arte della formatura dei calchi. L’opificio, che fin dall’inizio  assicura “precedenza assoluta ai bisogni del Reale Corpo d’Artiglieria”, è dotato di due forni Wilkinson, un forno a riverbero e macchine motrici a vapore; nel 1839 si aggiunge anche l’altoforno a coke per la riduzione in ghisa del minerale proveniente dall’isola d’Elba.

Proprio in quegli anni Genova si dota di importanti infrastrutture quali la ferrovia (la Torino-Genova risale al 1846), gli acquedotti e i gasdotti: la Balleydier, incaricata dallo stesso Municipio a svolgere un ruolo-guida nell’ambito del nuovo assetto urbanistico della città, sarà protagonista di ognuna di queste iniziative.

La sua duplice attività riguarda sia il settore dedicato alla fusione di utensili domestici e di macchine per l’industria, sia quello rivolto alle produzioni artistiche per il decoro pubblico e privato. Ampio spazio in quest’ultimo settore è riservato ai lavori di ornato per ringhiere, cancelli, balconi e balaustre: alcuni interessanti esempi, tuttora rintracciabili presso Villa Pallavicini a Pegli, lascerebbero intravvedere un rapporto piuttosto stretto tra i marchesi proprietari della tenuta e la fonderia ligure, tanto da ipotizzare, in mancanza di documenti certi, un intervento della Balleydier anche per gli altri manufatti in ghisa presenti nel parco della storica dimora quali il “padiglione turco”, la giostra, la ruota cinese, le ringhiere della Coffe House, il colonnato del tempio di Flora e le panchine.

Accanto a questi oggetti vengono realizzate opere di grande portata e rilevanza che dimostrano come lo stabilimento fosse al passo  con le produzioni delle maggiori ditte europee: tra queste sono da annoverare i ponti in ferro, che rappresentano un ramo specializzato della ditta, incrementatosi poi con la costruzione delle ferrovie e i lavori per il nuovo Politeama e la Galleria Mazzini di Genova.

Il Politeama, sorto dove già esisteva il teatro diurno dell’Acquasola, viene ampliato nel 1860 dall’ingegnere Nicolò Bruno; la fonderia di Sampierdarena, tra il 1870 e il 1875, fornisce le colonne della prima e seconda galleria e le ringhiere, sempre in ghisa, collocate a ridosso della platea e nel settore soprastante (queste ultime risultano coronate da un finissimo lavoro simile a un merletto in stile moresco).

La commissione per la Galleria Mazzini rappresenta, invece, un importante riconoscimento della capacità dello stabilimento a realizzare ciò che di più all’avanguardia circolava in quegli anni nelle principali capitali europee: l’innovativo connubio ferro-vetro. A questo proposito è necessario ricordare che in Italia, all’epoca della progettazione della galleria genovese (1871), non esistono altri esempi a cui ispirarsi: la galleria di Milano è infatti ancora in fase di cantiere e soltanto a Londra e a Parigi ci si confronta già da qualche decennio con opere di questo tipo.

Disegnata dall’ingegnere G. Argenti, la copertura genovese è tecnicamente e materialmente messa a punto dalla Balleydier che realizza l’innovativa struttura per conto della Banca Italiana di Costruzione, incaricata dei lavori. La copertura presenta il profilo di una volta a botte realizzata con lastre di cristallo su centine in ferro a doppia T ed è impostata all’altezza del secondo piano sui palazzi costruiti lungo il percorso.

Documenti rinvenuti nell’Archivio Comunale di Genova attestano una produzione molto feconda anche di oggetti impiegati per l’arredo urbano: sono da segnalare alcuni interessanti chioschi metallici con funzione prevalente di vespasiani, spesso dotati di una colonna luminosa al centro della struttura e, soprattutto, un’ampia produzione di lampioni a gas per l’illuminazione di piazze e strade, largamente impiegati a Genova e non solo.

Fra questi manufatti si distingue una particolare tipologia impreziosita sul corpo della colonna da una decorazione di tipo vegetale; essa, inoltre, rappresenta una testimonianza molto importante dell’attività dello stabilimento in quanto sono gli unici oggetti, fino ad oggi rinvenuti, a recare impresso sulla base il marchio della prestigiosa fonderia.

 

Milano: nuova fucina di idee e arti

Nel quadro degli interventi che dalla seconda metà del XIX secolo hanno contribuito a trasformare l’urbanistica e l’immagine di Milano, il tema dell’arredo urbano assume un posto di assoluto rilievo nell’opera di alcuni grandi architetti, impegnanti ad accrescere non solo il decoro del capoluogo ma anche quello di altri centri della Lombardia e del settentrione in generale. Un abbellimento circoscritto quasi esclusivamente ai centri storici e che comporta la progettazione di tutta una serie di oggetti appositamente creati, quali lampioni, fontane, chioschi, panchine, cancellate.

In particolare, proprio il lampione per l’illuminazione pubblica, elemento che caratterizza in maniera fondamentale lo spazio urbano nel quadro di interventi di nuova creazione o risistemazione di piazze e parchi, rappresenta l’oggetto d’arredo più ambito: la sua realizzazione richiede l’abilità di personaggi affermati in un’epoca in cui è fortemente richiesta una coerenza di stili tra l’opera architettonica e lo stesso manufatto d’arredo.

Questo è il motivo per cui dietro alle firme più prestigiose operano spesso abili fonderie artistiche, scelte direttamente dai progettisti per dare vita con grande maestria alle loro idee. Dall’elenco degli stabilimenti operanti a Milano nella seconda metà dell’Ottocento tre sembrano distinguersi per qualità e numero di opere prodotte: la fonderia Lomazzi, l’antica Casa Brunt e la Siry, Lizars & Cie.

La fonderia Lomazzi

Bronzi d’arte e di decorazione, fonderia artistica, studio di cesello G. Lomazzi”. Questa l’intestazione con cui nasce a Milano, a fine Ottocento, uno dei più importanti laboratori di getti artistici. La fonderia si espande parallelamente ai successi ottenuti grazie alla sua produzione e alla fama dovuta all’elevata qualità delle opere realizzate: al suo attivo si annoverano prestigiose collaborazioni con gli esponenti più in vista della cultura artistica e architettonica dell’epoca. Va sottolineato inoltre che viene tramandata di padre in figlio una lunga tradizione lavorativa del bronzo, dell’argento e della ghisa: dalla fusione a cera persa, alla fusione in staffa, dalla modellazione delle cere alla cesellatura e patinatura dei manufatti.

Il fondatore, Giovanni Lomazzi, inizia giovanissimo la sua attività presso la Società dell’Omnibus di Milano in qualità di decoratore per le guarnizioni dei convogli a cavalli. Le spiccate doti artistiche del ragazzo convincono il padre a mandarlo come apprendista nella fonderia milanese di Giuseppe Speluzzi che lo introduce all’arte della lavorazione a cesello e della fusione dei metalli; il perfezionamento avviene poi a Venezia nello stabilimento del cesellatore Giuseppe Michieli.

Rientrato a Milano, nel 1883, Giovanni apre la sua prima fonderia in via Rossini, stessa strada nella quale il signor Luigi Moretti gestisce il più importante laboratorio di ebanisteria del capoluogo. Presso questo stabilimento collabora fin da ragazzo, con mansioni di disegnatore, intagliatore e modellatore il figlio Gaetano, futuro grande architetto: il destino vuole che i due giovani si incontrino ripetutamente nel corso della loro esistenza instaurando rapporti di lavoro proficui e continuativi.

Nell’ultimo ventennio dell’Ottocento la produzione artistica di Lomazzi si concentra soprattutto sulla realizzazione di oggetti in fusione quali lampade, candelabri, statue e raffinati servizi da tavola che impreziosiscono le dimore delle famiglie più in vista di Milano. Da questa produzione emerge in modo evidente la forte ispirazione alla tradizione della bronzistica decorativa classica e rinascimentale: numerosi oggetti, considerati vere opere d’arte, vengono presentati alle esposizioni nazionali ed internazionali. Una data fondamentale è il 1889 quando all’Esposizione Universale di Parigi il maestro lombardo presenta una sensazionale “giardiniera con candelabri” premiata con la medaglia d’oro. Ormai la carriera di Giovanni è in forte ascesa; artefice geniale e versatile collabora con grandi progettisti che non esitano a commissionargli lavori prestigiosi.

In breve tempo riesce a dare vita a un notevole corpus di opere d’arte di carattere sacro che gli permette di esprimere al meglio la sua vena artistica: tra i vari interventi si segnalano i lavori per la riforma dell’altare maggiore del Duomo di Milano; la monumentale porta, sempre per il Duomo milanese, per la quale esegue la struttura architettonica, il montaggio e la messa in opera; i lavori in bronzo per l’altare della Cappella del Sacro Cuore nella Basilica di Sant’Ambrogio. Lavora in maniera continuativa anche nel campo dell’arte funeraria: a cominciare dal Cimitero Monumentale di Milano sono numerose le edicole o i monumenti che recano la sua firma.

L’attività artistica di Giovanni Lomazzi si dirama dunque con successo in ogni settore delle arti applicate e in tre importanti occasioni la sua fonderia è impegnata nella realizzazione di opere monumentali per l’arredo urbano: si tratta della cancellata artistica per la Cappella Colleoni a Bergamo, i lampioni di piazza Ducale a Vigevano, gli ornamenti e i lampioni per piazza della Scala a Milano.

Per quanto riguarda il primo di questi interventi, alla fonderia milanese è affidata l’esecuzione del modello ligneo progettato dell’architetto Virginio Muzio che già si era avvalso della preziosa collaborazione di Lomazzi per creare, sempre a Bergamo, la grata in bronzo davanti all’urna di Sant’Alessandro nella chiesa di Pignolo e, nel 1898, quella in argento per i Santi Ambrogio Gervasio e Protasio a Milano, opera monumentale che aveva definitivamente consacrato Lomazzi tra i massimi artefici dell’artigianato d’arte. Nel luglio del 1903 Muzio presenta al Consiglio del Luogo Pio il preventivo di spesa per una nuova cancellata in fusione da collocare davanti al Mausoleo Colleoni, secondo i disegni e i modelli predisposti: nel frattempo la morte improvvisa dell’architetto porta alla decisione di affidare l’incarico a Gaetano Moretti che non modifica il progetto esistente salvo apportarvi una maggiore ricchezza di dettaglio. L’opera, un magnifico monumento artistico, si compone di sei campate fisse e di una apribile, costituite da eleganti lesene dai capitelli finemente decorati; all’interno della composizione, tra medaglioni, scudi ed anfore, scorre una vegetazione in cui si intrecciano fiori con foglie d’edera, rami di quercia, ghiande, bacche e foglie di lauro. Moretti, come in precedenza aveva fatto Muzio, si affida allo stabilimento Lomazzi per eseguire i modelli, le fusioni, le finiture al cesello e le patinature a due tinte.

Piazza Ducale a Vigevano ha subito nel tempo profonde trasformazioni, le ultime delle quali risalgono alla seconda metà del XIX secolo quando il ricco negoziante Giorgio Silva, morto nel 1887, lascia in testamento il suo patrimonio, 80.000 lire ca., al Comune “affinchè si proceda all’abbellimento del luogo” (ciò sarà possibile solo alla morte della moglie, avvenuta nel 1901).

L’anno successivo viene nominata una commissione tecnico-artistica per valutare la tipologia d’intervento: l’architetto Gaetano Moretti, incaricato della direzione dei lavori, si concentra sulla pavimentazione della piazza e sulla progettazione dei nuovi candelabri, fusi in ghisa dallo stabilimento Lomazzi tra il 1905 e il 1906.  Il Corriere di Vigevano del 10 aprile 1905 ricorda questo importantissimo evento che rappresenta una delle tappe decisive del rinnovamento cittadino: “Fra i restauri della piazza vi è compreso un nuovo sistema di illuminazione a candelabri anziché a mensole infisse nelle facciate delle case prospicienti la piazza. L’architetto Moretti preferisce la ditta Lomazzi di Milano che offre garanzie di esecuzione superiore. Gli otto candelabri, su modello ideato dallo stesso Moretti, costano lire 7.540 complessive”.

Il riassetto di piazza della Scala fa parte di quel progetto di riorganizzazione funzionale e rappresentativa del centro storico di Milano dovuto quasi interamente all’intervento di Luca Beltrami, compresa la progettazione, risalente al 1914, degli arredi quali la recinzione-cancellata del monumento a Leonardo da Vinci, la fontanella e, soprattutto, la realizzazione dei monumentali lampioni: anche queste opere sono materialmente eseguite dalle mani esperte di Giovanni Lomazzi. I quattro candelabri, funzionanti a luce elettrica, sono caratterizzati da uno stelo rastremato verso l’alto terminante con una cetra ovale decorata, da cui si diramano mensole a spirali che reggono le lampade. A metà del sostegno primeggia un canestro portafiori (una novità per l’Italia, mentre era già presente in diverse città europee) riproposto come elemento di raccordo tra lo stelo e il basamento, quest’ultimo costituito da una serie di modanature e da una parte centrale liscia su cui risalta lo stemma della città di Milano. I preziosi manufatti sono in fusione di ghisa con ornamenti sempre in ghisa e in ferro battuto.

Tutti gli arredi vengono posti in opera nel 1919 (il ritardo è causato dalla guerra) e suscitano fin dall’inizio giudizi e consensi favorevoli, tanto da affermare che “la Piazza con i suoi 4 candelabri eretti verso il cielo dalla linea aggraziata ricorda il bel Rinascimento lombardo allietato dalla finezza del gusto estetico del grande Leonardo”.

La Compagnia Anonima Continentale, già Brunt & C.    

Le pochissime informazioni relative alla ditta Brunt giunte sino a noi sono contenute in un interessante stralcio recuperato dalla Rivista ufficiale dell’Esposizione Nazionale del 1898 di Torino cui la stessa casa partecipa con un suo padiglione.

“Prima che la lunga Galleria delle Industrie Manifatturiere immetta nell’Ottagono, proprio al limitare della vasta sala, a destra, sorge il ricco severo padiglione della Compagnia Anonima Continentale, antica Casa Brunt. E’ un emporio, un museo di lampade, di vasi, di bronzi d’arte. Ma vi hanno il disopra, per numero e per importanza di fabbricazione, le lampade; e sono d’ogni maniera, dall’antico stile pompeiano, di cui è imitata la tinta verde-antico, alle vaghe fantasie arabe, al severo ferro-battuto medievale, alla grazia del Rinascimento, alle civetterie del rococò, alla maestà dello stile impero, fino alle fogge modernissime, in cui un nuovo senso di decorazione prevale, originale, spigliato, felicissimo. Molte sono ad uso dell’illuminazione elettrica, il cui dominio va viepiù estendendosi, a scapito dell’ordinaria luce a gas, e anche delle reticelle Auer. Le lampade elettriche hanno su quelle a gas il vantaggio di una leggerezza assai maggiore, non essendo sovraccariche del pesante ingombro di tubi e dei globi e, inoltre, potendo dare all’apparecchio illuminante tutte le posizioni e tutte le direzioni. Questi notevoli e fortunati vantaggi appaiono evidenti nei bei modelli esposti. La Casa che ha riunito questa Mostra – la più importante, e di gran lunga, nel genere – venne fondata in Milano nel 1847 da un inglese, il signor Brunt. Mezzo secolo di dimora fra noi l’anno ormai fatta italiana: onde possiamo contare fra i vanti dell’industria nazionale la larghissima produzione che essa ha raggiunto e la considerevole esportazione che dei suoi lavori essa fa in America, nella Spagna, in Egitto. A Milano la casa ha un proprio edificio in via Quadronno, 41-43; impiega 500 operai; ha macchine a vapore della forza di 50 cavalli. Lo stabilimento è fornito di fonderia per bronzi d’arte e per lavori di ghisa e in metalli in genere, tanto per oggetti industriali quanto artistici, con un sistema speciale per la fusione a tasselli. Con tutta questa varia, multiforme produzione, la Compagnia Anonima Continentale ci ha emancipato dall’importazione francese, della quale ha saputo imitare i classici tipi, ricercati pur sempre. Essa però ha saputo ad un tempo ideare e creare nuovi modelli; e per questa via di geniale originalità e modernità potrà indirizzare viepiù i suoi modelli, quando il pubblico si persuada che i nuovi bisogni, la nuova vita richiedono nuove forme d’arte industriale, poiché anche questa deve rispecchiare il trasformarsi dei tempi, delle usanze e del grado di civiltà”.

Per ironia della sorte, di questo prestigioso stabilimento, che assieme al Pignone di Firenze ha fornito l’impronta nazionale all’arredo urbano dalla seconda metà del XIX sec. fino ai primi decenni del Novecento, scarseggia la documentazione storica, in particolare quella relativa ai disegni, alle foto e, soprattutto, ai cataloghi di vendita. Tale carenza è in parte “colmata” dai numerosi oggetti prodotti (bracci, mensole, pastorali, candelabri, fusioni artistiche per illuminazione), molti dei quali sopravvivono e abbelliscono ancora oggi diverse città italiane.

Come si apprende dal documento riportato, la ditta, fondata dall’inglese Brunt e divenuta in seguito Compagnia Anonima Continentale, già J. Brunt & C., ha sede a Milano e ne è direttore, a partire dal 1870 ca., G. De Vleeschhauwer. Succursali sono presenti anche a Parigi, Bordeaux, Lille, Bruxelles, Zurigo, Roma, Napoli e Torino. La rappresentanza del capoluogo piemontese, ubicata in via Roma 27, è affidata al signor Ferrario che lavora per l’alta società e per gli industriali: questo personaggio, che unisce all’abilità del commerciante il gusto inventivo dell’artista, riesce a dare vita a fusioni straordinarie.

Un altro dato significativo riguarda il tipo di oggetti prodotti nello stabilimento. E’ innegabile come l’ambito principale sia rappresentato dalla luce e in particolare dall’illuminazione pubblica: enorme è infatti la quantità di lampade realizzate (appartengono alla Brunt anche i monumentali lampadari bronzei della Stazione centrale di Milano), oltre alla creazione di tutta una serie di lampioni e candelabri in ghisa di qualità eccelsa.

Nel corso degli anni Venti del Novecento questa tipologia di manufatti inizia a sostituire nelle città italiane le classiche lanterne a gas di forma quadrata montate su piccoli pali; lampade elettriche più potenti, frutto di nuove tecnologie, possono essere infatti installate su pali imponenti, ad altezze prima impensabili. Tali tecnologie, in possesso della Brunt, le permettono di illuminare alcune delle principali piazze e strade italiane: i suoi modelli di lampioni più noti, spesso alti ben otto metri e impreziositi da raffinati decori vegetali, compaiono a Milano (compresa piazza Duomo), così come a Genova, Parma, Roma, Napoli, Verona e Torino. Proprio nel capoluogo piemontese i candelabri a pastorale e a cetra per sospensione di lampade ad arco sono presenti in corso Vittorio Emanuele e nelle piazze San Carlo, Vittorio Emanuele, Castello, Carignano. Gli arredi illuminanti della Brunt iniziano a diffondersi capillarmente, per oltre un trentennio, in moltissime città, anche di media e piccola dimensione, indistintamente al nord come al centro e nel sud della Penisola.

Siry, Lizars et Cie.

E’ il 1872 a Montrouge (Parigi) quando il fabbricante Gabriel Chamon rileva, insieme a Monsieur Nicolas, una piccola officina di riparazione di contatori a gas che dà lavoro a una trentina di operai: dalla loro unione nasce la Compagnie Des Compteurs.  Qualche anno dopo, nel 1878, si affianca anche Monsieur Foiret e la ditta cambia nome in Compagnie pour la fabrication des compteurs et matériel d’usines à gaz. La nuova società guadagna rapidamente un enorme successo che la porta ad aggiudicarsi il primato nella fabbricazione dei contatori e di tutto il materiale necessario al funzionamento delle officine del gas (regolatori, depuratori, condensatori, ecc.); la sua forza è garantita dall’intesa con i fornitori di materie prime – in particolare terra refrattaria e ferro – che si realizza attraverso operazioni di fusioni e di acquisto di azioni. La società, infatti, riesce rapidamente nell’intento di riunire sotto la sua ragione sociale le aziende un tempo concorrenti: M. Nicolas; Chamon; Foiret et Cie.; J. Williams; Michel et Cie; Siry, Lizars et Cie.

Per quanto riguarda quest’ultimo stabilimento, le informazioni in nostro possesso sono talmente scarse e frammentarie da non permetterci, almeno per il momento, di ricostruire le fasi salienti della sua storia. Eppure documenti conservati nell’archivio del Museo Italiano della Ghisa, in particolare copie di disegni di un album risalente al 1895, ma soprattutto la riproduzione fotografica di alcune tavole di un catalogo del 1900 ca. di proprietà privata, sembrerebbero delineare i contorni di una fabbrica importante, specializzata non solo nella realizzazione di contatori per il gas e per l’acqua, ma anche nella produzione di raffinati oggetti di arredo pubblico, in particolare varie tipologie di candelabri e di lanterne impiegati per l’illuminazione pubblica.

Questo potrebbe spiegare il motivo della sua partecipazione all’Esposizione Universale di Parigi del 1878 e l’esistenza, nella seconda metà del XIX secolo, di succursali in altri paesi come, ad esempio, l’atelier di Ginevra o quello italiano di Milano, ubicato al civico 23 di viale Lodovica e dotato di un deposito in Corso Vittorio Emanuele 26.

Monumentali candelabri artistici, con impresso la firma della Siry, Lizars et Cie, vengono scelti per impreziosire i centri storici di numerose città: tra queste si segnalano, oltre al capoluogo lombardo, anche Trieste, Bergamo, Verona e Torino dove, sul finire dell’Ottocento, il cortile dell’Istituto Nazionale per le Figlie dei Militari viene illuminato da quattro splendidi candelabri, veri e propri capolavori di arte industriale.

 

Ferro artistico a Venezia: la fonderia Neville & C.        

 Seconda solo alle industrie pubbliche dell’Arsenale e dei Tabacchi e prima fra quelle venete per la lavorazione del ferro, la Privilegiata e Premiata Fonderia Veneta di Enrico Gilberto Neville & C., con sede a Venezia, occupa già un posto di assoluto rilievo nell’opera pubblicata da Errera nel 1870 (Storia e statistica delle industrie venete). Situata nel sestiere di San Polo, in un’area adibita in precedenza a maneggio dei cavalli, lo stabilimento si estende all’incirca tra l’abside di San Rocco e il rio delle Sacchere e monopolizza il mercato del ferro a tutti i livelli d’uso, trattandosi dell’unica vera fonderia esistente in città.

Iniziatore dell’attività è però lo svedese Teodoro Hasselquist che il 28 maggio del 1851 ottiene dal Comune la licenza ad esercitare l’attività di fonditore mediante l’ausilio di una nuova caldaia a vapore di fabbricazione belga, che gli consente di produrre vari tipi di manufatti grazie alla facilità di approvvigionamento della materia prima, in arrivo al porto di Venezia soprattutto dall’Inghilterra.

Nel frattempo l’ingegnere inglese Alfredo Neville (Gilberto, suo figlio, figurerà poi sempre come titolare dell’impresa) compare ufficialmente a Venezia nel 1852 con le credenziali di grande costruttore di ponti rilasciategli dalla Direzione delle Ferrovie Asburgiche, e velocemente ottiene l’appalto per la costruzione del secondo ponte sul Canal Grande all’Accademia.

La reale possibilità di un’espansione sul mercato interno veneziano e la facilità di rispondere alle esigenze di una vasta clientela, lo convincono a stabilirsi in laguna e a rilevare la sola valida fonderia in attività, ovvero proprio quella di Hasselquist: l’avvicendamento, che risale al 1858, avviene in un periodo di fortissima espansione del mercato del ferro.

Questi due personaggi rappresentano, quindi, i capostipiti di una schiera di imprenditori stranieri che trovano presto il modo di investire capitali in città, come il francese Layet (titolare della prima fonderia “rivale” di Neville), lo svizzero Stucky, i tedeschi Herion, Junghans e Walter, proprietario quest’ultimo della prima azienda per la fornitura ai privati di energia elettrica, e le “società dei sevizi” che risultano inizialmente tutte francesi (gas, acqua potabile, trasporti).

Nel 1867, nella prima statistica sulle industrie voluta dal Governo italiano, la fonderia Neville risulta una vera fabbrica metallurgica con un centinaio di addetti impiegati, tra cui tre validissimi ingegneri e quattro abili disegnatori. Lo stabilimento è composto dalla fonderia, con due forni capaci di ottenere getti di un solo pezzo fino a 5000 chilogrammi, dall’officina dei fabbri calderai, dall’officina meccanica, con 16 torni assortiti, e dall’officina modellisti. Con tali risorse Neville riesce ad allargare il proprio mercato offrendo prodotti sempre più moderni e di ogni tipo, specie alle nascenti industrie ubicate anche fuori Venezia.

I problemi maggiori sono invece rappresentati dalle difficoltà di trasporto e, soprattutto, dalle scarse attrezzature del porto, inadatto alla movimentazione di prodotti sempre più voluminosi; alla fine del secolo a questi si aggiunge una cospicua concorrenza sia di piccola che di medio-grande levatura che nel tempo sottrae alla fonderia notevoli quote di mercato.

Troppo chiusa in se stessa, e per certi aspetti ancora arretrata, la piazza di Venezia non è più  considerata conveniente per Neville il quale inizia a tessere una serie di lunghi contatti col Comune, sfociati nell’acquisto definitivo dell’area da parte dell’Amministrazione cittadina per destinarla alla costruzione di case popolari (7 aprile 1905). Tra un rinvio e l’altro il Comune riesce ad entrare in possesso dell’ampio terreno nel settembre del 1907 e solo l’anno successivo, precisamente il 15 giugno del 1908, viene rilasciato il documento che certifica la demolizione di tutti gli storici fabbricati in possesso della fonderia.

Oggi a San Rocco solo il toponimo “calle della Fonderia” rimane a testimonianza del luogo sul quale per cinquant’anni si è fuso e lavorato il ferro, in uno dei più celebri stabilimenti risalenti al periodo della prima industrializzazione italiana.

Impegnata con successo su ogni fronte, l’attività della Neville ha largamente contribuito anche al decoro urbano della Serenissima, per la quale sono stati realizzati manufatti di grande pregio. Tra i vari oggetti spiccano le produzioni di ringhiere, balaustre, lampioni a gas per l’illuminazione pubblica di strade, piazze, calli e, soprattutto, quelle di numerosi ponti in ferro.

Tra questi ben 17 – due dei quali, quello dell’Accademia alla Carità (1854) e di San Lucia alla Stazione (1858), addirittura sul Canal Grande – sono costruiti a Venezia tra il 1850 e il 1870, in un contesto tra i più prestigiosi ed eleganti della civiltà urbana. I progetti in questo campo della Neville & C., assieme a quelli delle fonderie Collalto e Layet (le altre principali ditte realizzatrici), mirano a conseguire un effetto di pura trasparenza e leggerezza attraverso un uso sapiente e discreto di elementi di struttura, come d’ornato, proprio dell’ingegneria in ferro, coniugati alle esigenze ambientali veneziane.

Tale concetto è descritto splendidamente dal Romanelli nella sua opera Venezia Ottocento: “l’esilità e la solidità dei manufatti, il basso costo iniziale, la lunga durata e le ridotte spese di manutenzione, sono tutti elementi che contribuirono a fare di questi ponti la soluzione ideale a molti problemi di viabilità; la colonia dei ponti metallici può certamente dirsi come il più pregevole contributo, per design, funzionalità, costo e ambientazione, al rinnovo dell’arredo urbano di Venezia e certo uno dei più riusciti impieghi dei nuovi materiali da costruzione entro un centro storico” (G. Romanelli, Venezia Ottocento, Roma 1977).

 

Uno sguardo a sud del Po: l’Officina Meccanica e Fonderia Gaetano Barbieri

 Nel corso del 1853 un avvenimento di fondamentale importanza determina il decollo economico del comune di Castel Maggiore (BO): la costituzione della Società Anonima Officina Meccanica e Fonderia di Bologna. Nata per volere dei marchesi Pizzardi lungo il Canale Navile, dove sono da tempo in funzione diversi mulini che provvedono alle attività di trasformazione agricola dei loro possedimenti, essa è preposta alla costruzione di macchine utensili “per l’uso di qualsiasi industria” (Cremonini, 1988). In seguito, più precisamente nel 1869, la fonderia è acquistata da Gaetano Barbieri che dà vita nel decennio successivo, insieme al nipote Cesare, alla Società in nome collettivo Gaetano Barbieri & C. con sede a Castel Maggiore.

La nuova fabbrica si specializza nella produzione di caldaie, locomobili, macchinari ausiliari di bordo, piattaforme ferroviarie, ponti metallici, macchine utensili per industrie agricole e manifatturiere, ma riesce a raggiungere un alto livello qualitativo anche nelle fusioni artistiche. Nell’ultimo ventennio del XIX secolo il suo nome compare su numerosi oggetti impiegati nell’arredo urbano di Bologna: tavole contenute in un catalogo di vendita della ditta, presente nell’archivio del Museo Italiano della Ghisa, rivelano un’ampia produzione di ringhiere, cancelli, lampioni, battenti per porta, eleganti colonne progettate a supporto di pensiline o per la piccola edilizia (interessanti esemplari sono ancora oggi presenti anche sulle facciate di alcuni palazzi romani), parapetti per scale e terrazze.

Uno degli interventi sicuramente più significativi riguarda però la fusione dei 72 candelabri in ghisa della Montagnola, posti a coronamento della monumentale scalea disegnata e realizzata da Azzolini e Muggia, vincitori del concorso bandito nel 1887.

Lo stabilimento si cimenta anche nella realizzazione di importanti opere di copertura di edifici pubblici con centinature parzialmente o totalmente in ferro, comprese le parti complementari come le mantovane in lamiera o le vetrate metalliche delle stazioni: tutti oggetti capaci di esprimere ancora la qualità del lavoro artigiano. Tra questi lavori si ricordano, a Bologna, la costruzione del tetto del Padiglione dell’Industria per l’Esposizione del 1888; il Mercato delle Erbe; le rimesse per le vetture dei tram a cavalli in via Saliceto, il grande complesso del Forno del Pane; il consolidamento della volta della sala principale del Palazzo del Podestà.

Dall’esperienza compiuta in questo campo maturano le capacità di una produzione destinata a un mercato allargato e non più solo locale: ne sono testimonianza le grandi vetrate e porte metalliche nella stazione di sbarco passeggeri del porto di Genova, la copertura del teatro Apollo di Lecce, le forniture per la stazione ferroviaria di Chiavari dove la Barbieri, a partire dalle pensiline, realizza parti di edificio complete con strutture interamente in metallo, senza più integrare le opere murarie portanti, ma sostituendole con pilastri e tamponamenti in ferro e vetro.

La fonderia dispone, inoltre, di un suo gabinetto di modelli e l’indagine sul repertorio dei disegni, oltre a porre in primo piano il carattere della produzione nelle fasi di sviluppo industriale, ci permette oggi di intravvedere anche gli aspetti secondari del lavoro nello stabilimento, quelli materiali che appaiono proprio grazie alla fisicità del disegno. Per lo più si tratta di elaborati di istruzione, realizzati per essere usati in officina; altre volte, invece, vengono eseguiti per documentare e illustrare i caratteri peculiari di certi prodotti. I più antichi sono realizzati a matita e china diluita su carta bianca pesante (alcuni su cartoncino) e spesso colorati ad acquerello o tempera, per migliorarne la leggibilità; dai primi del ‘900 la possibilità di riproduzione consente di disegnare su un supporto trasparente, con china non diluita e ciò permette una maggiore cura del dettaglio.

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